Cha no yu
Cha no yu 茶の湯 Cerimonia del tè, praticata in Giappone. Conosciuta anche come Chadō o Sadō cioè la via del té. Cha no yu significa letteralmente \''acqua calda per il té.
È una delle arti tradizionali zen più note. Codificata in maniera definitiva alla fine del '500 da Sen no Rikyu, maestro del tè di Nobunaga Oda e successivamente di Hideyoshi Toyotomi. Può essere svolta secondo stili diversi ed in forme diverse. A seconda delle stagioni cambia la collocazione del bollitore (Kama): d'inverno posto in una buca di forma quadrata (Ro), ricavata in uno dei tatami che formano il pavimento, in estate appeso a una catenella. La forma più complessa e lunga (Chaji) consiste in un pasto in stile Kaiseki, nel servizio di té denso (Koicha) e in quello di té leggero (Usucha). In tutti i casi si usa, in varie quantità , il matcha, té verde polverizzato, che viene mescolato all'acqua calda con l'apposito frullino di bambù. Quindi la bevanda che ne risulta non è un infusione ma una sospensione, cioè la polvere di té viene consumata insieme all'acqua. Per questo motivo e per il fatto che il matcha viene prodotto utilizzando germogli terminali della pianta, la bevanda ha un effetto notevolmente eccitante. Infatti veniva utilizzata, e ancora lo è, dai monaci zen, per rimanere svegli durante le preghiere. Il té leggero usucha, a seguito dello sbattimento dell'acqua col frullino durante la preparazione, si ricopre di una sottile schiuma di una tonalità particolarmente piacevole e che si intona coi colori della tazza.
La Stanza del tè
La cerimonia del tè è qualcosa che va molto aldilà della semplice preparazione di una bevanda. È forse l'espressione più pura dell'estetica zen, tanto che un adagio giapponese dice: cha zen ichimi cioè tè e zen un unico sapore. Entrando nella stanza per una porticina bassa che costringe a piegarsi in segno di umiltà , l'ospite entra in uno spazio piccolo, a volte minimo, dove equilibrio e distacco dal mondo sono procurati da gesti secolari, parole codificate e osservazione di oggetti semplici ma di grande forza espressiva. La stanza, detta Chashitsu, può essere anche di pochi tatami, le finestre sono schermate e la luce filtra sommessa conferendo un alone di particolare fascino ad ogni elemento. Da un lato c'è il Tokonoma, una piccola nicchia in cui è appeso uno scritto eseguito da un calligrafo esperto di shodō, ed una piccola composizione ikebana, ma particolarmente adattata alla circostanza, detta chabana cioè fiori per il tè. Il Tokonoma ha da un lato un pilastro, detto toko-bashira, formato da un palo di legno appena sgrossato a cui di solito è appeso il chabana costituito da un piccolo vaso e spesso un unico fiore, in modo che tutta l'attenzione sia attratta dalla sua bellezza.
Il particolare significato che viene attribuito alla cha no yu si percepisce anche dal fatto che per indicare l'atto del preparare il tè si usa il verbo tateru che solitamente ha il significato di "celebrare" e non il più normale suru cioè fare, eseguire. Dopo che gli ospiti si sono accomodati, in ordine rigorosamente precostituito, con la persona più importante (o kiaku sama) o particolarmente prediletta posta al primo posto, si apre la porta scorrevole (shoji) e appare il chajin (persona del tè) inginocchiato in posizione seiza cioè con le punte dei piedi rivolte verso l'esterno. La cerimonia prosegue con il posizionamento dei vari utensili e con la preparazione del tè nella tazza (chawan). Ogni ospite (cominciando da quello principale) viene invitato a consumare il dolce con la formula rituale okashi o dōso (cioè servitevi del dolce, prego) e successivamente gli viene posta dinanzi la chawan. L'ospite si scusa col vicino e gli chiede il permesso di servirsi per primo (o sakini), prende la tazza la fa ruotare per esporre lo shomen (cioè la parte di finitura che fa da riferimento) in direzione del chajin dopodichè beve con brevi sorsi esprimendo il suo gradimento. Poi pulisce il bordo della tazza e la posa dinanzi a sé. La tazza viene ripresa dal chajin e lavata. La cerimonia procede con gli altri ospiti, finchè al termine, quando tutti hanno bevuto il tè, il primo ospite pronuncia la frase di rito o natsume o chashaku no haiken o cioè chiede il permesso di esaminare gli utensili: il contenitore del tè (natsume) e il cucchiaino di bambù (chashaku). Il permesso viene accordato e a turno gli ospiti prendono gli utensili e li osservano attentamente. Per ultima viene osservata la tazza, rigirandola tra le mani e chiedendo informazioni sul maestro che l'ha creata, l'epoca e lo stile.
All'ospite poi può venir richiesto se intenda dare un nome al chashaku e lui a questo punto può citare una poesia o un verso o semplicemente fare un riferimento alla stagione. Molto indicati sono i kigo cioè i riferimenti stagionali contenuti nell'ultimo verso di un haiku, quindi frasi come aki no kure (sera d'autunno) oppure momono hana (fiori di pesco) e così via. La cerimonia si conclude col chajin che ritorna alla posizione iniziale, si inchina profondamente all'unisono con gli ospiti e richiude la porta scorrevole. Quella descritta è la cerimonia più semplice cioè il servizio di usucha (tè leggero) ma ve ne sono di assai più lunghe e complesse.
La Dimora del Vuoto
La stanza del tè è il luogo fisico deve si svolge la cerimonia ma è anche luogo mentale. In essa sono stati trasfusi gli ideali dell’estetica zen. Ai concetti precedenti di yūgen e di sabi, Rikyu aggiunse quello di wabi. Se lo yūgen era l’incanto sottile, impossibile da trasmettere con le parole, caro agli autori del Nō (soprattutto Zeami) e il sabi la patina sottile del tempo che rende gli oggetti affascinanti e ispiratori di tranquillità e armonia, il wabi di Rikyu aggiunse qualcosa di eversivo: la povertà ricercata, il rifiuto assoluto dell’ostentazione. Rikyu amava lo stile semplice, cioè vedeva la stanza del tè come dimora della fantasia o dimora del vuoto. Spogliata da ogni possibile orpello, con pareti grezze e praticamente priva di alcun contenuto che non fosse di pensiero. I personaggi che si muovono in essa sono usciti temporaneamente dal mondo e dai suoi affanni per contemplare brevemente il vuoto. Il concetto di mu-shin, cioè letteralmente non-mente, quindi il dimenticare la razionalità per giungere ad un approccio totalizzante con le cose e le persone, è rappresentato perfettamente dallo spazio racchiuso nella stanza del tè. Al vuoto materiale deve corrispondere il vuoto mentale. Nella stanza tutti dovevano entrare disarmati e tutti erano uguali, tutti si dovevano inginocchiare e tutti dovevano “subire†le stesse regole. È chiaro quale fosse il potere destabilizzante di questi concetti e così Rikyu fu costretto al suicidio in quanto un potere che viveva, come sempre, di ostentazione e di forme vuote, si sentiva minacciato dalla forza silenziosa del maestro.
Utensili e ambientazione
- Chakin (Salvietta per pulire la tazza)
- Chasen (Frullino di bambù)
- Chashaku (Cucchiaino di bambù)
- Chashitsu (Stanza del té)
- Chawan (Tazza)
- Fukusa (Fazzoletto di seta)
- Futa oki (Appoggio per lo shaku)
- Hishaku (Mestolo di bambù)
- Kama (Bollitore per l'acqua)
- Kensui (Recipiente per l'acqua di lavaggio)
- Mizusashi (Recipiente per l'acqua)
- Natsume (Recipiente laccato per il té)
- Ro (Buca quadrata in cui si pone la Kama)
Il principio del wabi di Rikyu sconvolse anche l’arte della ceramica. Le ceramiche finissime di origine cinese furono scalzate rapidamente da quelle di apparenza rozza che incarnavano l'ideale estetico di semplicità e povertà che il maestro intendeva affermare. Tutto iniziò quando ad un certo Chōjirō, operaio coreano addetto alla produzione di tegole, Rikyu chiese di realizzare una ciotola senza usare il tornio né la sovrapposizione a spirale di un cordone di materiale ma semplicemente modellando la forma concava partendo da un pezzo di argilla. Chōjirō eseguì la commissione e il risultato fu talmente straordinario che Rikyu stesso giudicò la tazza perfetta sia dal punto di vista estetico, poiché l’aspetto rozzo rispondeva a quell’esigenza di austerità che si prefiggeva ma anche da un punto di vista pratico, in quanto la tazza bassa e larga aveva una stabilità ideale ed era quindi adattissima per l’utilizzo sul tatami senza pericolo che i numerosi spostamenti cui era soggetta durante la cerimonia ne causassero il ribaltamente. Anche lo shogun Toyotomi fu altrettanto entusiasta e conferì al vasaio l’autorizzazione a fregiarsi, con tutti i suoi discendenti, del sigillo Raku. Questa parola significa “comodo†“piacevole†e da allora la famiglia assunse questo nome.
Ancora oggi l’ultimo discendente dei Raku produce, come i suoi antenati, tazze di grande bellezza. Ovviamente anche altri si cimentarono in questo tipo di produzione e così nacquero altri capolavori sempre allineati con i principi estetici dello zen. Fra i più noti quelli di stile Mino, Seto, Shino, Bizen. Particolarissime le tazze con smalti color crema e soprattutto quelle con smalto nero. Un discepolo di Rikyu, Furuta Oribe dette origine a una serie di pezzi straordinari per creatività e colorazione appunto noti da allora come stile Oribe. Spesso i vasai lasciavano colature di smalto o zone non coperte, imperfezioni, bolle, insomma l’ideale estetico del wabi si diffuse sempre più. Malgrado le intenzioni di Rikyu, le ceramiche che dovevano esprimere il massimo dell’austerità e della povertà raggiunsero valori elevatissimi ed erano assai ricercate. Si usava persino premiare i combattenti più valorosi donando loro pezzi particolarmente pregiati o di maestri celebri. Ora molte di queste opere sono conservate nei musei e hanno valori incalcolabili. Ma anche le opere di maestri viventi o del recente passato, eseguita con le tecniche immutate dei tempi di Rikyu, raggiungono quotazioni notevoli.
Scuole
Ura Senke
Omote Senke
Mushanokoji Senke
Bibliografia
Il notevolissimo numero di opere sull'argomento consiglia una sintesi dei testi più accessibili:
- Rand Castile, The way of tea, Tokyo John Weaterhill, 1971
- Kakuzo Okakura, The book of tea N.Y. 1906, Il libro del tè, Ed. Nuova 1983.
- Soshitsu Sen XV, Chado: The japanese way of tea, Tokyo 1979
Per le ceramiche della famiglia Raku e relativa cronologia si veda: [1]
Film
Uno dei film più interessanti sull'argomento è Morte di un maestro del té (1989), Leone d'argento alla Mostra del Cinema di Venezia, del regista Kei Kumai, con Toshiro Mifune, Eiji Okuda, Kinnosuke Yorozuya, Go Kato, Shinsuke Ashida. Il film rende in modo perfetto l'atmosfera del mondo del té e narra la vicenda del maestro Rikyu e le problematiche abbastanza misteriose che lo condussero al suicidio nel 1591.