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Cucina emiliana

Cucina emiliana - Come la maggior parte delle regioni italiane, l’Emilia possiede, piuttosto che una cucina, una costellazione di cucine, che, nella fattispecie, è il risultato di quasi otto secoli di autonomia delle città emiliane, dall’età dei Comuni all’Unità d’Italia, e del ruolo di vere e proprie capitali esercitato a lungo dai centri maggiori.

Tra l’Emilia delle Legazioni e quella dei Ducati, in particolare, la divergenza dei percorsi storici ha prodotto conseguenze avvertibili anche in campo alimentare e gastronomico. Ma mentre tra la cucina romagnola, inglobata per quasi quattrocento anni nello Stato della Chiesa, e quella dell’Emilia i contrasti prevalgono sulle affinità, le cucine delle diverse città emiliane compongono un quadro che, pur molto variegato, presenta tuttavia significativi tratti comuni. Fanno in parte eccezione Piacenza, sensibilmente influenzata dalla cucina lombarda, e Ferrara che, per la sua posizione eccentrica, ha sviluppato - e conservato - tratti assolutamente peculiari.

Proprio perché governata da potenti famiglie signorili, presso le cui corti servivano i cuochi più celebrati, l’Emilia ha grandi tradizioni gastronomiche. Per tutta l’età rinascimentale e barocca dominano due «scuole»: quella romana della corte papale e, per l’appunto, quella emiliana. A Ferrara operano Giovan Battista Rossetti e Cristoforo Messisbugo; a Parma, a quanto sembra, serve Vincenzo Cervio; a Bologna prestano la loro opera Giulio Cesare Tirelli e Bartolomeo Stefani. E’ verosimilmente dalla tradizione cinque-seicentesca che la cucina emiliana eredita quei caratteri di opulenza e prodigalità per cui Bologna (e con lei l’intera regione) è chiamata «la Grassa».

La cucina emiliana - perlomeno quella più nota - è indubbiamente una cucina solida, saporita e generosamente condita. Meno ricca di piatti e raffinata di altre cucine regionali, deve la sua fama proprio alla non dissimulata prodigalità: fama acquistata in anni in cui, per i più, la qualità coincideva con la quantità. «Cucina bolognese» o «cucina emiliana», ricorrente richiamo di ristoranti e trattorie sparsi in tutta Italia, era a un dipresso sinonimo di cucina abbondante e sostanziosa. Da questo punto di vista si può dire che la rinomanza gastronomica dell’Emilia, seppure non è usurpata, va oltre i suoi reali meriti.

Perno della cucina emiliana sono i primi piatti. Innanzi tutto le tagliatelle, di sfoglia sottile e soda (la farina va smorzata solo con le uova; non è ammessa una sola goccia d’acqua); si condiscono con un ragù di carne e pomodoro o con prosciutto a dadini soffritto nel burro. Una variante sono le tagliatelle verdi, nel cui impasto entra il prezzemolo. Con la sfoglia verde, accoppiata a quella gialla, si confezionano le lasagne al forno, piatto dovizioso a strati alterni di ragù e besciamella, probabilmente ispirato agli anconetani «vincisgrassi». Vessillo della cucina bolognese e modenese, i tortellini appartengono alla grande famiglia delle sfoglie ripiene di ingredienti più o meno nobili: famiglia di origine antica (è già presente nei ricettari medievali) e largamente diffusa in tutta l’Italia centro-settentrionale. Li si consuma sia in brodo che asciutti, al ragù; i cosiddetti «tortellini pasticciati», alla panna, sono un’innovazione non meno recente che deplorevole. Fra le altre paste ripiene andranno almeno citati i tortelli (o tortelloni) di magro, con compenso di ricotta e spinaci, i raffinati anolini di Piacenza e i tortelli di zucca di Reggio nell'Emilia, parenti strettissimi di quelli mantovani.

Per quanto riguarda i piatti di mezzo, l’Emilia non è altrettanto dotata né per numero né per originalità: la cotoletta alla bolognese è una variante ricca della cotoletta alla milanese; il petto di tacchino (cotto nel burro con prosciutto, formaggio e tartufo) è un rispettabile esempio di ‘’Grande Cuisine’’ tradotta in petroniano; lo stracotto di manzo, vigoroso e profumato di spezie, ha antenati illustri e congiunti sparsi qua e là per la penisola: più caratteristiche sono le versioni con carne di cavallo e d’asinello. L’Emilia, in compenso, vanta una produzione di salumi che per varietà e pregio non ha l’eguale. La mortadella bolognese, di carne suina e bovina, è un insaccato di nobili natali e dal gusto superbo, ingiustamente sottovalutato per la mitezza del prezzo; la mortadella di Modena è di pura carne suina. I prosciutti di Parma (o piuttosto di Langhirano) raggiungono un mirabile equilibrio di dolcezza e sapore. Il culatello, ottenuto col «cuore» del prosciutto, è un salume regale. A Felino, nel parmense, si produce un salame stagionato a regola d’arte e dal gusto intenso. Gli zamponi e i cotechini di Modena sono troppo noti perché occorra ricamarvi sopra: gli uni e gli altri entrano, fumanti, nei superbi lessi misti del modenese e del reggiano. La salama da sugo di Ferrara, saporitissima e speziatissima, è un frammento di cucina rinascimentale giunto fino a noi.

Noto in tutto il mondo e definito a buon diritto «il re dei formaggi», il grana parmigiano e reggiano è ingrediente d’obbigo di numerosi piatti emiliani e di altre regioni, tradizionali e di nuovo conio, anche se la sua inarrivabile fragranza si apprezza soprattutto - e specialmente se è stravecchio - quando lo si consuma al naturale, a piccole scaglie.

Tra i dolci - di cui gli emiliani non sono particolarmente golosi - spiccano quelli di ascendenza rinascimentale, ricchi di mandorle, miele e spezie: il certosino di Bologna, la spongata di Brescello e Busseto, il panpepato di Ferrara. Non vanno dimenticati, accanto a questi, alcuni modesti ma diffusi dolci popolari come le frappe (o sfrappole), le castagnole e la ciambella.

Regione in gran parte di pianura, l’Emilia non offre grandi vini. Il lambrusco secco, leggero e frizzante, si sposa benissimo, paradossalmente, coi piatti più grassi e saporiti, rappresentandone per così dire l’antidoto; il lambrusco amabile è un vino da dessert o da conversazione. Sono entrambi prodotti a Sorbara e in altri comuni modenesi e reggiani.

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