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Lucrezio Caro

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"La goccia scava la pietra" - (Lucrezio)
Tito Lucrezio Caro, o più semplicemente Lucrezio, poeta e filosofo latino, sostenitore della dottrina materialista e della scuola epicurea. Nacque prima del 90 AC e morì prima del 50 AC: il 98 AC ed il 55 AC sono le date più verosimili, ma permangono ancora notevoli incertezze sugli estremi della sua vita. Quasi sicuramente falsa è la voce della sua follia, mai ricordata prima, neppure da Lattanzio, che pure accusa metaforicamente il poeta di «delirare» e che avrebbe confermato la notizia se l’avesse conosciuta. L'accusa è nata probabilmente in ambiente cristiano nel IV secolo per screditare la sua polemica antireligiosa.

Table of contents
1 Note biografiche
2 Lucrezio e l'epicureismo romano
3 Lingua e stile
4 Opere

Note biografiche

Lucrezio era forse di origine campana. Risulta infatti che Napoli fosse sede di una scuola epicurea e che la Venus Fisica venerata a Pompei avesse peculiarità simili a quella cui Lucrezio dedicò il proemio del De rerum natura. Non è invece possibile determinare la classe sociale cui Lucrezio appartenne ma è inoppugnabile l'ampiezza della cultura da lui ricevuta. Nemmeno dal tono delle parole rivolte all'aristocratico Memmio nel corso dell'opera è possibile capire se Lucrezio fosse un suo pari anziché un liberto.

Lucrezio e l'epicureismo romano

L'epicureismo nel mondo romano

Nel
I secolo AC l'epicureismo aveva raggiunto una discreta diffusione negli strati elevati della società romana. A Napoli, sotto la guida di Sirone studiavano giovani di diversa estrazione sociale, fra i quali i discendenti di alcune famiglie nobili, Virgilio e, probabilmente, Orazio.

Sono note le propensioni epicuree di Attico, l'amico di Cicerone e di Cesare. Lo stesso Cicerone riferisce che divulgazioni dell'epicureismo, in cattiva prosa latina, circolavano tra la classi inferiori, attratte dalla facilità di comprensione di quei testi e dagli inviti al piacere in essi disseminati.

La condanna della poesia

Epicuro raccomandava l'estrema chiarezza e semplicità dell'espressione, conformemente all’universalismo del messaggio epicureo, che intendeva rivolgersi a persone di ogni livello sociale e anche, cosa assai insolita nell'antichità, alle donne. Lucrezio, tuttavia, per divulgare in Roma la dottrina epicurea, optò per la forma del poema epico-didascalico. Tale fatto dovette destare sorpresa, infatti Epicuro aveva condannato la poesia, soprattutto quella omerica, base dell'educazione greca, per la sua stretta connessione col mito, in cui irretiva pericolosamente i lettori, allontanandoli da una comprensione razionale della realtà.

Lucrezio e il poema didascalico

La scelta di Lucrezio fu probabilmente motivata dal desiderio di raggiungere gli strati superiori della società con un messaggio dotato anche di attrattive letterarie e della «bella forma» di cui talora si ammantavano le altre filosofie. Quasi all'inizio del poema, Lucrezio afferma esplicitamente che suo proposito è «cospargere col miele delle Muse» una dottrina apparentemente amara (immagine ripresa dal Tasso nel proemio della Gerusalemme liberata). Non è perciò un caso che Lucrezio, scostandosi del tutto dal suo maestro Epicuro, ostenti ammirazione per Omero.

Cicerone critica l'epicureismo

Cicerone, una decina di anni dopo la pubblicazione del De rerum natura, ossia fra il 46 AC e il 44 AC, nei suoi trattati filosofici sostenne una violenta polemica contro l'epicureismo ma non fece alcun riferimento al poema di Lucrezio, forse proprio a causa dell’ l’eccezionalità della forma poetica, che faceva dell’opera un unicum nella letteratura epicurea (inoltre Cicerone preferiva rifarsi direttamente alle fonti greche dell'epicureismo), ma il motivo determinante di tale silenzio era la volontà di non concedere spazio e credibilità di interlocutore a chi aveva scritto un'opera con forti valenze disgregatrici per la società aristocratica cui Cicerone si rivolgeva.

Lingua e stile

Il breve giudizio sul De Rerum Natura, contenuto in una lettera al fratello Quinto, testimonia che Cicerone ammirava in Lucrezio non solo l'acutezza del pensatore, ma anche la capacità di elaborazione artistica. Lo stile del poeta, a tratti troppo brusco, arcaizzante e ripetitivo, però lo stile e l'organizzazione complessiva della materia sono volti a convincere il lettore. Si spiegano in tale ottica le frequenti ripetizioni, infatti, alcuni concetti dovevano essere riassunti in brevi formule facilmente memorizzabili, come raccomandava Epicuro, collocate più di una volta in punti chiave del poema.

Anche l'invito all'attenzione del lettore doveva essere reiterato spesso; e alcuni termini tecnici della fisica epicurea, nonché i nessi logici di grande uso (come le formule di transizione tra argomenti diversi: adde quod, quod superest, praeterea, denique) dovevano restare fissi per consentire al lettore di familiarizzarsi con un linguaggio non certo facile. Inoltre, alla lingua latina mancava la possibilità di esprimere taluni concetti filosofici e Lucrezio fu quindi costretto a ricorrere a perifrasi nuove, a coniazioni, talora a calchi diretti dal greco, infatti, egli lamenta la "povertà del vocabolario avito".

La povertà della lingua però era limitata al lessico strettamente tecnico e Lucrezio sfrutta una gran mole di vocaboli poetici che la tradizione arcaica (soprattutto enniana) gli fornisce, soprattutto aggettivi composti e molti ne crea egli stesso rivelando una spiccata propensione per nuovi avverbi e perifrasi.

Dalla tradizione enniana e dal patrimonio della "poesia elevata" romana, Lucrezio trae caratteristiche forme di espressione (più che dallo stile alessandrineggiante contemporaneo), come un intensissimo uso di allitterazioni, di assonanze, di costrutti arcaici e di effetti di suono propri del gusto espressivo-patetico dei più antichi poeti di Roma. Lucrezio dimostra di possedere una vasta conoscenza della letteratura greca, come testimoniano le riprese di Omero, Platone, Eschilo, Turipide.

Tutta la descrizione della peste di Atene nel libro VI, è basata sul racconto di Tucidide e traspare la conoscenza dei poeti ellenistici più raffinati (Callimaco). Certamente il tratto distintivo dello stile Lucreziano va individuato nella concretezza dell'espressione e nella vacità descrittiva, che derivano dalla mancanza (più volte denunciata dallo stesso poeta) di un linguaggio astratto già pronto, disponibile a significare le idee e a dare forma filosofica al discorso.

Paradossalmente l'espressione trae da ciò un vantaggio formale, quanto deve supplire i vuoti verbali ricorrendo a una gamma vastissima di immagini e di "esempi" esplicativi. Al contrapporsi di cose umili e grandi, di statica e dinamica, corrisponde nell'espressione il contrasto efficace tra le movenze di una lingua viva e colloquiale (che parla di cose quotidiane) e la scelta di uno stile grande e sublime. Il risultato è uno stile severo, capace di durezze e di eleganze, pronto alla commozione e alla meraviglia, ma anche all'invettiva profetica, sempre grandioso, senza cadere nell'ampolloso e magniloquente.

Opere

Vedi anche: (Vedi: Portale Filosofia | Progetto Filosofia)

 


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